Carola Rackete ha guidato in porto la nave da lei comandata. Lo ha fatto per conto dell’ organizzazione umanitaria Sea Watch, avendo come fine quello di portare in salvo il carico umano che aveva tratto dal rischio di morte nelle acque del Mediterraneo. In un altro frangente storico sarebbe stata esaltata per il coraggio, la professionalità, il merito umanitario, invece contro di lei l’epiteto di criminale, invettive e parole d’odio, gravi accuse giudiziarie e persino gli arresti.
Deprecabili poi le offese sessiste urlate alla persona di Carola Rackete e ancor più intollerabili le minacce di stupro la cui eco mediatica reclama un intervento di esplicita condanna da parte di personaggi politici che, disponendo di potenti “social network” per influenzare l’opinione pubblica, hanno il dovere di criticare tale linguaggio con un’efficacia comunicativa almeno equivalente a quella della minaccia.
Questa vicenda si è giocata politicamente sulla stigmatizzazione della capitana, senza alcun impegno ad analizzare la complessità della situazione e senza alcuna considerazione dei migranti come persone.
È già difficile capire i fatti oggettivamente, figuriamoci giudicarli! Eppure, come accade sempre più spesso, si sono subito costituite schiere di urlatori pronti alla condanna giustizialista ancorata al diritto.
Scriveva Simone Weil: «I diritti appaiono sempre legati a date condizioni. Solo l’obbligo può essere incondizionato. Esso si pone in un campo che è al di sopra di ogni condizione, perché è al di sopra di questo mondo». Aldilà del diritto, che viene declinato in riferimento ai luoghi e alle culture, ci ricorda la filosofa, esiste un criterio che deve regolare l’agire umano e al quale si accede non limitandosi ai fatti ma esercitando la coscienza per coglierne il loro valore. La coscienza detta l’obbligo, cioè quel rispetto incondizionato per la vita che regola la relazione umana. È una facoltà irriducibile. Si può ottundere, occultare, ignorare, ma non sopprimere, perché è insita in ciascun essere umano.
Un altro filosofo, Edmund Husserl indicava questa facoltà di comprensione propriamente umana nella ragione coscienziale, cioè nella capacità di cogliere «i problemi del senso e del non-senso dell’esistenza umana nel suo complesso».
Entrambi questi intellettuali un secolo fa hanno delineato la loro riflessione con l’obiettivo di tracciare la via perché l’Europa rinascesse dalle macerie belliche e imparasse a esercitare la responsabilità di costruire un autentico progresso, contro la falsa illusione fornita dalla “scienza dei fatti”. Di fronte al rischio del naufragio dell’Europa unita e pacificata, vale la pena citarli e recuperare la ricchezza di riflessioni lontanissime dal minimalismo dei discorsi messi in circolo per contagio mediatico, tali da annullare il bisogno di interrogazione, di profondità, di senso, perché basta il contatto, proprio come i virus, difficili da contrastare.
La maggior parte di chi governa le nazioni dell’attuale Europa ignora beatamente la ricchezza di quei contributi per lo sviluppo di una cultura europea: politici irrigiditi su metodi inadeguati ad affrontare la complessità di fenomeni antichi come quello migratorio ma, quel che è peggio, lontani da ogni prospettiva di senso, cioè di capacità di tenere lo sguardo fisso verso ciò che ha valore incondizionato, il fine a partire dal quale poter distinguere i mezzi. Al contrario soffrono di sguardo gravemente corto, legati come sono al feticcio della fattualità, condizionati dalla seduzione del consenso, da ciò che risponde a interessi particolari, all’opportunismo del vantaggio immediato rispetto al guadagno duraturo: “respingiamo l’invasione di migranti”, “prima gli italiani”, “blocco navale”, “difesa dei confini” “alziamo muri”e slogan simili hanno successo perché vengono presentati come risoluzioni di fatto, sfruttando un sentire massificato che ruota intorno ai bisogni di fruibilità materiale, consumistica, individualistica. Assistiamo al circolo seduttivo tra la massa che si compiace della politica centrata sul feticcio della fattualità e la politica che pesca sempre di più nei bassi fondi del sentire umorale massificato. Il correlato di tale circolo è il degrado della politica incapace di soluzioni intelligenti, di cogliere la complessità, di tessere trame diplomatiche, di intraprendere azioni risolutive strutturali; ma anche la diffidenza e la paura come nuove dogane della convivenza civile, per non parlare dell’aggressività crescente, del razzismo strisciante, in una parola dell’indurimento dei cuori.
Chi esercita il potere può riuscire a persuadere i cittadini della inoppugnabilità del diritto, ma non della sua giustizia. La giustizia non si trova nella datità dei fatti, bensì nel senso umano che ad essi conferisce la coscienza, lo sguardo che siamo in grado di esercitare a condizione di interrogarci su ciò che giova alla vita, ma non solo alla nostra.
Non si tratta di sostenere la violazione delle leggi, ma di pretendere che siano rispondenti al senso di giustizia! Socrate accettò la condanna a morte, pur di non assumersi l’onta dell’inosservanza delle leggi, ma non in ossequio alle leggi bensì alla giustizia ad esse sottesa, tant’è che si difese smascherando l’ inconsistenza morale e intellettuale di chi lo accusava in nome di quelle stesse leggi: «essi hanno continuato a parlare in modo persuasivo; eppure, invero, non hanno detto alcunché di vero, per così dire».
Socrate si difese ironizzando proprio sulla pretesa di verità di chi lo accusava, per cui prima di morire per rispetto della legge, seppellì la credibilità di chi lo accusava attraverso l’uso ingiusto della legge.
Resti chiaro che nel circolo seduttivo tra il potere politico e il consenso mediatico se il prezzo è quello della strumentalizzazione dei fatti e della svendita del senso di giustizia, la bilancia della responsabilità pende decisamente dalla parte di chi detiene il potere. La storia non condanna tanto il coro anonimo di chi grida “crugifige”, bensì condanna chi ha istigato e si è avvalso di quel coro. Una popolazione può dare il suo consenso a chi la governa millantando di risolvere i problemi assecondando le aspettative “dal basso”, ma prima o poi la stessa folla presenterà il conto per il raggiro subito di fronte alle macerie delle false risoluzioni e delle strumentalizzazioni dei propri bisogni.
Nella babele dell’attuale circolo mediatico, almeno qualcosa emerge chiaro: la divisione dei poteri è l’unica àncora perché la democrazia non naufraghi nei marosi della demagogia: ai giudici dei tribunali lasciamo la competenza di stabilire la liceità dei fatti; ai millantatori di verità lasciamo la vergogna della smentita. Nessun dubbio per chi usa la ragionevolezza della coscienza riguardo alla statura umana della capitana Carola Rackete, giovane donna perfettamente in grado di fare scelte giuste per la vita.
Stefania Macaluso
Presidente associazione Le Rose Bianche
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