Il discorso per la pace dell’Arcivesco di Palermo Corrado Lorefice
DONNE PER LA PACE
Di Stefania Macaluso
Prima di essere un mistero, la guerra è una scelta. La cecità che la muove ha un motivo profondo, una sorgente occultata. Per intenderla e per attingere l’energia giusta al fine di contrastarla abbiamo bisogno di tornare al corpo, di tornare ai corpi.
In queste parole pronunciate dall’Arcivescovo Corrado Lorefice in occasione della Veglia di preghiera per la Pace, il 4 novembre, nella Basilica di San Domenico, troviamo le premesse logiche e antropologiche della “profezia della pace”.
Il mondo sta facendo i conti con la sciagura della guerra, sprofondando non solo nelle conseguenze di morte e distruzione, ma anche, assurdo che sempre accompagna ogni conflitto, trascinandosi nel dibattito su eticità e inevitabilità della guerra. Il turpe arsenale bellico, che le varie nazioni hanno accresciuto nel tempo, trova così la giustificazione d’uso.
Sul piano logico la pace, condizione ineludibile per la sussistenza della vita, non ha bisogno di attributi per essere esplicitata. La pace è un principio valoriale che si autopone. Condizionare l’instaurazione della pace all’istanza etica della giustizia equivale a ipotecarne la possibilità. Porre l’opzione della giustizia come pregiudiziale della pace, ostacola i negoziati ingabbiandoli nella precondizione dogmatica della “pace giusta”. Il concetto di “giustizia” presuppone infatti un criterio fondante della giustizia stessa; è chiaro che ciascuna delle parti in guerra ritiene di trovarsi nel giusto. La pace è in realtà la premessa per la giustizia, non il contrario; attendere previamente che si ristabilisca la giustizia equivale ad avallare ulteriormente la guerra. Non si tratta certamente di abdicare alla rivendicazione delle giuste ragioni dell’aggredito, né di minimizzare le gravi responsabilità dell’aggressore, ma di anteporre l’urgenza della pace per sottrarre la vita alla distruzione delle armi. Se fino al secolo scorso la retorica bellica del sacrificio di vite umane in nome dell’ideale di giustizia poteva millantare un prognostico di vittoria basato sul confronto della potenza militare, oggi la potenza distruttiva delle armi è tale che l’unico prognostico è quello della distruzione mondiale.
La forza della profezia della pace non ha nulla dell’utopia pacifista, ma è piuttosto logica conseguenza di realismo prammatico che impone la via negoziale per una pace possibile, come si prospetta nel “Piano per una pace giusta e duratura in Ucraina” elaborato dall’Accademia pontificia delle Scienze Sociali.
La guerra, acme dell’irrazionalità, non può trovare alcun sostegno etico nella scelta di condurre lo scontro armato “fino alla fine” come doverosa reazione all’offesa; conferire moralità all’escalation delle armi significa assumere una posizione idealistica, cioè di presunzione razionalistica rispetto al primato valoriale della vita concreta. La contraddizione diventa palese nei fatti, come evidenzia l’Arcivescovo Corrado Lorefice:
Parlo di una cecità profonda. Sappiamo infatti che in primo luogo si vede e si sente con il cuore. In questo senso, ogni dichiarazione di guerra è un infarto dell’umanità, che blocca la circolazione e atrofizza la mente. Come si fa infatti a non capire che non esistono vincitori? E che ogni vittoria è solo una valanga di morti senza motivo?
La guerra in Ucraina, come ogni guerra, è cominciata con l’inimicizia tra capi di stato e di governo, poi è diventata inimicizia tra popoli, ora odio che spinge a giustificare ogni violenza fino all’annientamento del nemico, divenuto intanto un’entità astratta, senza identità né volto, come accade anche di tanti caduti, salvo a rendere l’omaggio postumo a corpi anonimi sacrificati, “milite ignoto”. Ecco perché bisogna tornare ai corpi. Ci è stata data una vita corporea attraverso la quale entriamo in relazione col mondo. L’unica possibilità che abbiamo di stabilire un contatto relazionale vitale è attraverso i corpi.
La pace necessita di condivisione, di incontro, di relazioni umane. Ecco perché l’unica via sono i negoziati, secondo quanto da decenni è stato elaborato dagli organismi internazionali per il dialogo e la risoluzione dei conflitti, sul solco della complessa rete di interscambi umani, fatti di cooperazione, reciproca conoscenza, strategie di interscambio, incontri tra persone di differenti culture e appartenenze.
Un fondamentale contributo nell’elaborazione di un’antropologia che aiutasse a ricostituire il senso dell’umano dopo la devastazione di due abominevoli guerre mondiali ci è giunto in particolare dalle filosofe che hanno conosciuto quegli orrori: Maria Zambrano, Hanna Arendt, Simone Weil, Edith Stein, Etty Hillesum. Esse, insieme ad altre intellettuali, hanno dato un apporto straordinario di riflessione sul valore del corpo, nei frangenti di un tempo, il Novecento, durante il quale la manifestazione dell’istinto di Thanatos ha prevalso fino all’annientamento sistematico dei corpi che ha visto la sua manifestazione più terribile nella Shoah. In particolare, l’ontologia della persona intesa come unità corporeo-spirituale è stata oggetto di studio da parte della filosofa Edith Stein, che, come le altre filosofe citate, ha sperimentato sulla sua carne l’assurda malvagità della guerra voluta da pochi uomini al comando, capaci di sedurre intere popolazioni alle ragioni del male.
Alla forza della perversa razionalità alimentata dall’odio mortifero, le filosofe, in quello scenario di guerra, hanno contrapposto un ideale di forza fondato sul riconoscimento dell’essere corporeo-spirituale di ogni creatura umana. La riflessione delle donne ha messo in luce una specifica capacità femminile di comprensione di questa realtà, a partire dal “sentire corporeo”. Su tale capacità di comprendere il valore ontologico dell’unità psico-fisica della persona umana come corpo vivente (Leib), la filosofa Edith Stein afferma:
«Ci sono altre forme della coscienza rispetto a quella conoscitiva e anche altre funzioni della ragione che non sono meno adeguate e più povere della chiarezza filosofica: il sentire, il volere, l’agire. C’è una disciplina che nella sua attività si rivolge a queste tre funzioni fondamentali: l’etica. In particolare, si è abituati a considerarla come dottrina del retto agire, e anche se non si pensa di separare il volere dall’agire, è invece un problema molto discusso nella storia dell’etica se anche la terza funzione nominata, il sentire, non appartenga a questo ambito. […] Il sentire è una forma di coscienza che si diversifica in modo multiforme e corrispondentemente ci sono varie e diverse discipline che vanno incluse nell’ambito delle sue considerazioni» (Introduzione alla filosofia). E in un’altra opera riferisce alla donna una specifica sensibilità, o “attitudine” verso tale conoscenza, secondo una «particolarità del modo di conoscere della donna che ha una peculiare forza per intuire il concreto e il vivente» (La donna).
Fino a qualche tempo fa sembrava che lentamente, almeno presso la cultura occidentale, si fosse recepito il portato straordinariamente innovativo della filosofia relazionale fondata sul riconoscimento del valore corporeo. Si pensi alla categoria antropologica dell’empatia, introdotta proprio da Edith Stein, che ha avuto un diffuso successo e di cui ora sembra si sia perduta la nozione. Non è un caso che la guerra nel cuore dell’Europa sia esplosa dopo il periodo dell’emergenza pandemica che certo è stata una dura esperienza di allontanamento e addirittura di frattura delle relazioni interpersonali, per tanti motivi, non solo di sicurezza sanitaria. Abbiamo impiegato decenni per recepire lo straordinario contributo antropologico delle filosofe del Novecento ed è bastata una crisi pandemica per farci arretrare in individualismo, paura dell’altro, indifferenza. Per rimediare a questa deriva va riconosciuto, ancora una volta, un ruolo alle donne. Naturalmente non le donne come astratta categoria sociale, ma le donne reali che scelgono di opporsi ad ogni minaccia alla vita attraverso il loro impegno personale. Penso alle donne che lottano contro qualsiasi violenza giocata sui corpi, da quella privata a quella politica, alle afghane, alle iraniane, alle madri che protestano contro la guerra che divora i loro uomini, in Ucraina come in Russia, in Medio Oriente come in Africa.
Le donne in particolare “sentono”, conoscono implicitamente la ragionevolezza della pace, l’urgenza di affermare la vita contro la morte, il valore insopprimibile dei corpi da custodire da ogni minaccia di violenza e di guerra. Le guerre da sempre sono faccenda di corpi da sacrificare. I potenti che scelgono lo scontro armato contano sui numeri di corpi da destinare alla macchina mortale della guerra. I signori delle armi che caldeggiano i conflitti, non tengono in alcun conto che i loro ordigni uccideranno esseri umani generati dalle madri per la vita.
Ecco il senso di tornare ai corpi e sentire col cuore implicito nella “profezia della pace” evocata da don Corrado: un monito per chi dimentica che ogni essere umano è concepito in un corpo di donna perché viva il proprio destino di esistenza e a nessuno è permesso di negare la vita:
Tutti le madri che hanno partorito lungo questi mesi ci ricordano la strada che gli umani non vogliono imboccare. Il corpo della donna deve entrare come realtà e come metafora nella polis, nella città degli uomini. Il corpo della donna. Il luogo in cui il maschile e il femminile diventano nuova vita, il corpo in cui si dà la coesistenza di due corpi diversi, senza crisi di rigetto. Il corpo della donna è il corpo della pace.
L’intenso appello dell’Arcivescovo ci offre la chiave per comprendere le parole, pronunciate da papa Francesco in un discorso tenuto nella giornata del 2019 dedicata alla festa internazionale delle donne, che oggi assumono la forza della “profezia della pace”:
La pace è donna. Nasce e rinasce dalla tenerezza delle madri. Perciò il sogno della pace si realizza guardando la donna.
Da mesi a Palermo, come in tante altre città, le donne chiedono trattative di pace subito; con i loro corpi denunciano la retorica mortale della guerra che non genera né martiri né eroi, ma solo cadaveri sacrificati ad inutili stragi. Presidiare un luogo dal quale lanciare l’appello alla pace significa fermarsi ad abitare uno spazio umano per affermare una volontà di vita contro la morte. È un’azione di forte valore simbolico, consiste cioè nella rappresentazione condivisa della volontà di scegliere il bene. È la politica delle donne, quella che non consiste nell’esercizio del potere, ma nell’attuazione di prassi virtuose, vantaggiose cioè per la vita buona. Le donne che con i loro corpi in presenza pronunciano la scelta della pace, mettono già in atto il processo di pacificazione, contraddicono la narrazione moralistica della guerra giusta, smentendola con la loro esperienza relazionale di condivisione aldilà delle differenze e delle conflittualità.
Il presidio Donne per la pace, fin dall’inizio della guerra russo-ucraina, si riunisce ogni giovedì a Palermo, in piazza Vittorio Veneto presso la “Statua”, il Monumento ai Caduti, diffondendo di settimana in settimana un volantino col quale esprimono le ragioni del loro appello alla pace. Donne diverse per storia e identità politico-culturale, insieme realizzano la prassi pacifica della condivisione. I loro corpi di donna sono di per sé un monito a non uccidere la vita che da esse si genera. Il 23 luglio l’Arcivescovo Lorefice si è unito a loro, insieme all’Imam Badri Al Madani e ad esponenti di diverse religioni, insieme alle donne iraniane, ucraine, russe e a tutti coloro che comprendono l’urgenza della pace, la forza giusta della pace, la logica sensata della pace come unica opzione possibile.
Stefania Macaluso